“L’esagerazione è una verità che ha perso la calma”: questo potrebbe essere il titolo dell’esposto indirizzato al Garante Privacy sul tema Green Pass.
Considerato il contesto, non esattamente un insieme di voci fuori dal coro né tantomeno una novità, ma attenzione: non si tratta dell’ennesima propaganda No-Vax/No Green Pass.
L’esposto che annovera firme autorevoli all’interno della lista composta da 25 giuristi riconosce la validità dello strumento, ma pone dubbi in merito alla liceità del Green Pass.
“Il Green Pass non deve forzare la mano su diritti e libertà fondamentali"
Il documento composto da 6 pagine depositato in maniera telematica sul sito del Garante illustra in maniera chiara il grande dubbio dei 25 avvocati: “il Green Pass mina i diritti e le libertà fondamentali?".
Tra i 25 firmatari spicca il nome dell’avvocato Andrea Lisi, presidente di Ancorc (Associazione Nazionale Operatori e Responsabili della Custodia di contenuti digitali), l’esperto di diritto alla protezione dei dati personali, avvocato Enrico Pelino e Diego Fulco, avvocato del Foro di Milano.
La lista dei firmatari è completata da Carola Caputo, Antonella d’Iorio, Gianfrancesco Vecchio, Massimo Leonardi, Lorenzo Giannini, Pasquale Cardone, Tonia Corrente, Francesca Retus, Clementina Baroni, Alessandra Faina, Annalisa Carnesecchi, Sabina Bargagna, Giorgia Macrì, Maria Elena Iacopino, Ofelia Barbara Iantoschi, Cristiana Corsini, Roberto Nasci, Caterina Gozzi, Alessandro Fabbri, Ivana Wanausek, Massimo Baglieri e Roberta Carbone.
Avvocato Lisi: “Green Pass scorciatoia per estorcere consenso al Vaccino”
“Se si vuole rendere il vaccino un obbligo generalizzato bisogna imporre l’articolo 32 della Costituzione che illustra come la compromissione del diritto alla salute può arrivare soltanto attraverso una legge che specifichi le finalità e anche gli indennizzi” spiega Lisi in uno dei numerosi temi dibattuti.
Nessun dubbio sull’utilità del vaccino, molti di più sul Green Pass che “teoricamente è previsto dall’Unione Europea come strumento di circolazione delle persone, mentre nella pratica è diventato uno strumento per estorcere un consenso al vaccino” continua il presidente di Ancorc.
Uno strumento di controllo che passa da autorevole ad autoritario: “Una volta superato un limite, poi li superiamo tutti: manca trasparenza e alcune scelte sembrano addirittura arbitrarie - conclude Lisi che alimenta i dubbi anche sulla soglia anagrafica dell’obbligo e manifesta una speranza chiara - dobbiamo abituarci a stare sempre nell’alveo della Costituzione”.
Avvocato Pelino: “Raggirate regole Nazionali ed europee”
Non va per il sottile nemmeno l’avvocato Enrico Pelino: “Quando si fa un trattamento dei dati personali è fondamentale indicare la finalità. Nel Green Pass questa informazione manca”.
L’esperto di diritto alla protezione dei dati personali tira in ballo anche la politica “siamo diventati tutti controllati e controllori: non c’è un rapporto tra lo strumento e le esigenze mediche, ma esiste invece il rapporto tra strumento ed esigenze politiche”.
Anche dalle parole di Pelino è chiara l’accusa di forzare la scelta rendendola obbligatoria: “crea un peso psicologico ed un peso di tipo economico, la vera finalità è esercitare una coercizione verso una scelta che sarebbe formalmente libera”.
Il legale Fulco: “Confusione fra trattamento sanitario e trattamento dei dati”
Un’altra autorevole firma porta il nome di Diego Fulco che segue la stessa linea dei colleghi “si è utilizzato uno strumento surrettizio, per spingere in qualche modo verso la vaccinazione che ha comportato la condivisione di dati personali su vastissima scala e che vede coinvolti moltissimi soggetti”.
Il vero problema secondo Fulco è che “l’uso di dati personali diventa sproporzionato, eccessivo e sovrabbondante: non legittimo ai sensi della GDPR”.
A mancare secondo Fulco è “il principio all’appropriatezza secondo cui qualcuno non può avere informazioni su qualcun altro”.
L’esposto completo contro il Green Pass
È un arretramento allarmante riguardo ad acquisti giuridici che ritenevamo intangibili in tema di uguaglianza e rispetto della persona umana, senza distinzioni e appartenenze di gruppo. La discriminazione è dunque odiosa, ed estremamente grave perché incide in modo diretto sull’esercizio di diritti fondamentali.
L’art. 1, co. 1, lett. a) introduce inoltre una discriminazione nella durata del green pass tra i vaccinati con ciclo primario da un lato e i terzo-dosati dall’altro. Per i primi il pass dura sei mesi, per gli altri dura… in aeternum. Le evidenze mediche indicano esattamente l’opposto, ossia che il livello di anticorpi decade invariabilmente in tutti i vaccinati dopo pochissime settimane. Una discriminazione che non trova ragione nella scienza la trova solo nel potere di chi può imporla.
Questi nuovi trattamenti differenziati risultano particolarmente afflittivi perché si saldano con lo svuotamento di diritti già attuato dai precedenti decreti.
All’italiano non vaccinato o vaccinato con green pass scaduto è precluso addirittura qualsiasi spostamento con mezzi di trasporto pubblico, inclusi quelli locali e regionali, soggiorno in hotel, accesso a luoghi di ristorazione, pur con un tampone negativo, ossia nonostante l’evidenza diagnostica di assenza di carica virale.
È una scelta non solo inesplicabile, ma anche in diretto conflitto con il regolamento padre, ossia il 2021/953, ivi cons. 36. Già solo per tale ragione codesta Autorità dovrebbe dichiararne il contrasto con il principio di liceità, art. 5.1.a) GDPR, cfr. anche l’art. 9, co. 9 DL 52/2021.
Osserviamo che il medesimo strumento diagnostico è invece considerato valido dallo Stato perfino per attestare l’uscita dalla condizione di positività; introdurre questa disparità di trattamento è de plano incostituzionale. Anche ciò rileva ai sensi dell’art. 5.1.a) GDPR.
La durata e la spendibilità del green pass ha ricadute assai profonde sulla vita di soggetti già provati da due anni di pandemia, dunque vulnerabili, e vulnerabili comunque per definizione, come sono sempre i cittadini rispetto allo Stato. Per molti, l’attuale assetto di regole significa non poter più ottenere sostentamento per sé e per la propria famiglia, non poter addirittura più svolgere tutti quei lavori che richiedono l’utilizzo dei mezzi di linea o la partecipazione a congressi o il soggiorno in strutture ricettive o pasti fuori sede con clienti.
Vuol dire vedersi addirittura impedito, per alcuni, il rientro nella casa di abitazione o la visita ad affetti lontani o addirittura l’estremo saluto, non potersi recare in una città distante, o perfino limitrofa, per accertamenti medici se non si dispone di un mezzo proprio, non poter andare al cinema con i figli. Sono messi in serio pericolo sussistenza, protezione, possibilità di cure, rapporti familiari e affettivi, ma anche in generale i più elementari aspetti sociali e la dignità stessa. Un uomo è la sua dignità. Questa asportazione di diritti umani si pone in evidente contrasto con impegni internazionali.
Altre attività quotidiane, come comprare un paio di mutande, inviare una raccomandata, effettuare un pagamento postale o bancario sono rese impossibili se non di volta in volta programmando (costosi) tamponi.
Le medesime attività sono invece accessibili in libertà a soggetti potenzialmente contagianti in quanto privi di tampone. Il diritto è innanzitutto proporzione e ragione. I principi di proporzionalità, necessità e rispetto del contenuto essenziale dei diritti, posti dall’art. 52 CDFUE, affiorano dappertutto nel tessuto del GDPR, a partire dalle norme più esplicite come l’art. 6 e il 23.
A tanta compressione, si ritiene addirittura ormai superfluo da parte dello Stato perfino fornire spiegazione, non si parla infatti più neanche di bilanciamento: si modificano le regole e basta. La discriminazione con green pass riguarda addirittura i minori (ultradodicenni), ossia i soggetti più vulnerabili, tutelati espressamente da convenzioni internazionali.
In data 2.2.2022 il Garante dei Diritti dei Minori per la Provincia autonoma di Trento, dott. Fabio Biasi, scriveva in una comunicazione istituzionale al Commissario del Governo, a istituzioni locali ed all’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza di Roma (https://bit.ly/3LqWwSX, https://bit.ly/34OKhPh): “[…] È semplicemente inammissibile, per un Garante dei diritti dei Minori, non dare voce a quelle che sono le espressioni di grave disagio e di legittima protesta, a causa delle ulteriori e gravi limitazioni dei diritti fondamentali della persona: non posso quindi che comunicare alle SS.LL. quello che viene dettato dalla mia coscienza, nella consapevolezza che l’omesso intervento renderebbe il sottoscritto complice di questa evidente, enorme ed ingiusta discriminazione. Rivolgo pertanto alle SS.LL. il mio personale disappunto e la mia indignazione per quello che si può definire come un cervellotico ed assurdo meccanismo di controllo sociale (il cosiddetto green pass, nelle sue molteplici declinazioni) […] che comporta, in un continuo crescendo, gravi, violente ed ingiustificate limitazioni ai diritti fondamentali di tantissimi ragazzi e delle loro famiglie. Il tutto viene scientemente alimentato da una perdurante e martellante narrazione mediatica, tesa ad indicare i bambini ed i ragazzi quali diffusori di malattia, con conseguente loro colpevolizzazione e percezione di essere ‘sbagliati’. […] Il solo pensiero – come è stato fatto ed imposto – di condizionare il diritto allo studio al possesso di un lasciapassare da dover esibire sui mezzi pubblici, nonché per accedere alle attività sportive o culturali, costituisce non solo una gravissima ferita allo spirito della Carta costituzionale, fondamento primario della nostra organizzazione civile, ma anche un insulto all’intelligenza della generalità dei consociati. Queste norme – espressione di un potere esecutivo che pretende di disporre autoritativamente delle vite delle persone fino nei minimi dettagli – hanno comportato un generale clima di smarrimento e confusione ed una pericolosa frattura nelle relazioni tra i cittadini stessi, minando severamente le basi costituzionali per la promozione della pacifica ed armoniosa convivenza civile. […] Quali persone titolari di responsabilità istituzionali non possiamo continuare ad evitare di chiederci quanto e quale sia il grado di ansia, di tristezza, di disagio, di emarginazione inutilmente causato ai nostri bambini e ragazzi: non possiamo non interrogarci su chi e cosa ripagherà tutto questo (ammesso che ci possa essere un risarcimento) e soprattutto sugli effetti a medio e lungo termine che queste assurde e dannose vessazioni comportano in capo agli stessi”.
È inusitato che ci si sia spinti a tale livello di arbitrio normativo e addirittura si prosegua. Questo avviene in pieno regresso dell’incidenza della pandemia, a dimostrare come le ragioni del “green pass” non abbiano alcun rapporto con l’andamento del contagio. A quanto ci consta, non sussiste alcuna valutazione d’impatto (“DPIA”) a spiegare e misurare l’esatto vantaggio apportato in termini medici dalle discriminazioni sopra descritte, del perché per esempio per una raccomandata occorra un tampone e perché allora non lo si richieda a soggetti anch’essi potenzialmente contagiosi e contagianti.
E siamo sicuri che nessuna DPIA si sia preoccupata di valutare e soppesare l’incisività dell’impatto psicologico e sociale e gli effetti a lunga portata del green pass. Abbiamo cioè la percezione che si stia agendo in completa illegalità, perché l’art. 35 GDPR impone che la DPIA sia effettuata “prima di procedere al trattamento”, che abbia requisiti netti, pesati fino alla frazione di grammo, che approdi, com’è ovvio nella situazione attuale, alla consultazione preventiva (art. 36 GDPR), che sia ripetuta o aggiornata a ogni cambiamento, specie se più afflittivo. Siamo in attesa di esaminare la DPIA che avrebbe dovuto essere alla base, per esempio, del DL 172/2021 o del DL 229/2021 o del DL 1/2022 o del DL 5/2022.
La verità è che sono saltate tutte le regole. Quelle degli artt. 5, 6, 9, 25, 35, 36 GDPR, degli artt. 8 e 52 CDFUE, del divieto di discriminazione contenuto al cons. 36 Reg. (UE) 2021/953 e ribadito più volte nel parere congiunto EDPS-GEPD n. 4/2021.
Basterebbe la contrarietà con una sola di queste norme a dichiarare immediatamente illecito il trattamento. Osserviamo che nessuno degli innumerevoli decreti legge succedutisi, incluso il 52/2021, risulta adottato consultando codesta Autorità (non se ha contezza dal sito istituzionale), come imposto invece dall’art. 36, par. 4 GDPR, che è requisito diverso dalla mera audizione in Parlamento in sede di successiva conversione. Già solo questo basterebbe a dichiararne l’illiceità.
Che senso hanno le regole se non sono regole o lo sono solo talvolta?
“Vi renderemo la vita difficile, come stiamo facendo” (https://bit.ly/3Lfidp4), dichiarava il 25.1.2022 in una trasmissione televisiva un sottosegretario del Ministero della Salute, ossia una carica istituzionale, confermando che la finalità del trattamento green pass è punitiva. Sono affermazioni che provengono dall’arco governativo, sono formulate al plurale e non hanno trovato smentita o distanziamento. Non sono le sole.
Per esempio, il 10.9.2021 il Ministro per la Pubblica Amministrazione aveva definito il green pass: misura “geniale” perché aumenta il costo sia psichico che monetario “per gli opportunisti contrari al vaccino”. La finalità dello strumento viene dichiarata dunque come di oppressione economica e psicologica per forzare a un trattamento sanitario formalmente libero, non sussistendo t.s.o. generalizzato. I recalcitranti sono istituzionalmente bollati con lo stigma di “opportunisti”.
Non crediamo possa essere tollerato oltre dal sistema giuridico – senza cioè un collasso strutturale – che un trattamento di dati personali sia spinto fino a questo punto di violazione normativa e di lucido perseguimento di obiettivi di castigo, oppressione economica e mentale, umiliazione. In realtà, è ab origine illecita qualsiasi applicazione nazionale del green pass, anche a prescindere dai recenti eccessi. Come si può infatti solo pensare che un trattamento che trasforma l’intera popolazione in controllati e controllori possa essere lecito e non ultroneo? Come si può supporre che sia conforme a normativa essere costretti a dichiarare a chiunque identità, data di nascita e dati sanitari di cui è perfettamente inferibile il contenuto, oggi perfino reso manifesto da un’app che distingue tra green pass “rafforzato” e versione “base”, così come sono inferibili le personalissime convinzioni sottostanti?
Siamo agli antipodi del GDPR.
L’art. 32 Cost. impone che i trattamenti sanitari obbligatori siano leciti solo “per disposizione di legge”. Questo è il binario invalicabile segnato dalla Costituzione. O c’è legge vaccinale (se ne sussistono le condizioni) oppure c’è pieno diritto di scelta vaccinale: “Nessuno può essere obbligato”. Oggi, per contro, al fine di applicare un t.s.o. senza introdurre una legge vaccinale, e quindi in aggiramento della Costituzione, si utilizza il trattamento di dati personali “green pass”. Si dichiara istituzionalmente che serve a esercitare coercizione, a punire, si dichiara pubblicamente che è geniale poiché, infliggendo intenzionalmente sofferenza, riduce le resistenze umane. È quasi testualmente la definizione di tortura. Come può essere lecito un trattamento di dati personali usato strumentalmente per aggirare la Costituzione, dunque, alla lettera, eversivo?
Come può essere lecito un trattamento connesso con meccanismi di sofferenza? È sadismo giuridico. Lo stesso art. 32 pone, alla legge vaccinale, la clausola fondamentale dell’osservanza de “i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Codesta Autorità, con provvedimenti del 23 aprile 2021 [9578184] e del 9 giugno 2021 [9668064], cui si chiede di dare continuità, aveva da subito dichiarato contrario a diritto il DL 52/2021 per indeterminatezza della finalità.
È un merito storico. Il punto è che il vizio di finalità non è mai stato sanato. Non hanno infatti pregio i riferimenti tardivi e sporadici a una generica finalità di salute pubblica: al più segnalano una regione di interesse, quella della salute pubblica appunto, ma non la finalità determinata richiesta dall’art. 8, par. 2 CDFUE.
Nella finalità di salute pubblica si può invero inserire qualsiasi cosa, ed è stata infatti inserita qualsiasi cosa. È una nebulosa, non una finalità.
Nei limitati casi in cui la finalità di salute pubblica è più nitidamente declinata nel “prevenire la diffusione dell’infezione”, come agli artt. 9-quinquies e 9-septies, difettano comunque tre condizioni basiche di liceità, ossia: (i) l’esplicitazione del nesso causale tra green pass e finalità; (ii) il requisito di necessità imposto ex art. 9.2 GDPR, posto che “necessità” non è semplice “opportunità” o “utilità”; (iii) il requisito di proporzionalità tra trattamento e finalità, come da artt. 5, 6.3, 6.4 (cfr. EDPB-GEPD, Parere congiunto 4/2021, § 24, parte in grassetto), 23 GDPR.
Manca il nesso causale: tutti contagiano, vaccinati e non vaccinati, e lo fanno massicciamente, tutti diffondono il virus. L’assunto che il vaccinato non contagi è semplicemente falso. È smentito dai bollettini ISS, dalla scienza, dalla cronaca. Non è mai stato vero, cfr. EDPB-GEPD cit., § 11.
Tutti i certificati verdi generati non da tampone ma da vaccinazione o guarigione, addirittura riferiti a eventi avvenuti mesi prima, sono pacificamente inidonei alla prevenzione della diffusione del patogeno. Manca la necessità. Nella maggior parte dei contesti (si pensi all’accesso a un negozio), per prevenire la diffusione è ampiamente sufficiente una mascherina ad alto potere filtrante. E comunque l’unico strumento idoneo a comprendere se una persona trasporti o no carica virale resta l’accertamento medico ad personam, ossia un “tampone” svolto in data più recente rispetto al periodo medio di incubazione. Semmai, perciò, solo il green pass generato da tampone, non quello generato da vaccinazione, è coerente con la finalità dichiarata.
Il green pass da vaccinazione è stato anzi finora un formidabile veicolo di diffusione del patogeno, dunque opposto alla finalità, permettendo l’accesso a qualsiasi luogo di stretta interazione sociale anche a soggetti la cui carica virale non è mai stata controllata, accoppiando a una fallace illusione di sicurezza la mancanza di qualsiasi verifica medica attuale. Come si può davvero credere che un green pass siffatto abbia potere schermante dal virus o incorpori uno stato attuale di salute? Addirittura, e fino a tempi recentissimi, il green pass da vaccinazione o da guarigione non è stato neppure revocato a chi era certamente positivo.
Manca la proporzionalità: non c’è alcuna gradazione tra rischio e restrizione. In realtà, la finalità del certificato, del resto apertamente dichiarata, è di ampliare a tutti i costi la percentuale di vaccinati, e più esattamente il numero delle dosi somministrate. Abbiamo constatato in questi mesi che durata ed effetti giuridici del pass sono stati definiti e continuamente ridefiniti in maniera discrezionale, a seconda delle esigenze politiche, per modulare determinate risposte comportamentali nella popolazione, attraverso un vastissimo trattamento di dati personali collegato con un meccanismo afflittivo/premiale.
È una situazione degradante per degli esseri umani. Ritenevamo finora immaginabile un tale disinvolto sistema di coercizione alla vaccinazione solo a latitudini giuridiche molto lontane dalla nostra. Lo strumento è diventato talmente distorsivo che ci si vaccina oggi non più per ragioni sanitarie ma per avere il green pass. Il green pass è diventato il fine, la chiave che apre la prigione in cui è stata rinchiusa un’intera popolazione. Addirittura ci si infetta deliberatamente per avere il green pass, l’opposto dunque di ragioni sanitarie.
Ci si è innamorati tanto di questo strumento di controllo sociale che si parla oggi perfino di una sua possibile ultrattività alla cessazione dello “stato di emergenza”.
Tanto premesso, noi sottoscritti, esprimendo la massima solidarietà per gli attacchi istituzionali di cui il Garante è stato fatto oggetto in questi mesi, culminati con l’abrogazione dell’art. 2- quinquiesdecies d.lgs. 196/03, CHIEDIAMO che, esaminato quanto sopra esposto e ritenutane la fondatezza, codesta Autorità ripristini lo stato di legalità conformemente al proprio mandato istituzionale, dichiarando illecito, nella sua declinazione italiana, il trattamento di dati personali “certificazione verde” introdotto con DL 52/2021 e successivi atti normativi, e per l’effetto ne disponga la limitazione definitiva e il divieto in applicazione dell’art. 58, par. 2, lett. f) GDPR, ponendo in tal modo fine al più vessatorio, distopico e distorsivo esperimento sui dati personali finora attuato dall’istituzione della Repubblica.